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BECKETT L’OTTIMISTA (part. 3)

Perfino durante l’ultima produzione teatrale beckettiana, quella a ridosso degli anni Ottanta, i personaggi cercano di sfuggire al nichilismo. Queste pièces brevi, i cosiddetti dramaticules, sono atti unici che, seppure hanno con sé un dolce lirismo, non lasciano mai scampo alla malinconia.
Anzi, a ben vedere, sono quasi un’ode alla vita. Sono, in un certo senso, figli dell’Ultimo nastro di Krapp (1958). Il dramma affonda, infatti, le sue radici nel materiale autobiografico: alla fine del 1957, Samuel Beckett aveva saputo da un amico che un suo vecchio amore aveva un cancro alla gola allo stadio terminale, rimanendone sconvolto. Rimase, così, nel 1958, in uno stato di profonda depressione. Proprio in quest’occasione scrisse il dramma, opera abbastanza atipica rispetto alla sua produzione. L’atto unico vede un uomo che continua a rievocare il suo passato, oramai perduto, simboleggiato dalle diverse donne che ha conosciuto durante la vita. Tuttavia, continua a ricordare gli occhi di una sola:

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BECKETT L’OTTIMISTA (part. 2)

La dimensione sociale e politica è caratteristica tanto di Beckett quanto di molti dei migliori artisti informali. Se nell’autore irlandese sarà assai presente in Commedia (1963), anche Emilio Vedova (1919-2006) non sarà da meno. Il pittore spazierà tra differenti temi radicati nella propria epoca, partendo dallo studio dei
classici, da Tiziano a Velàzquez, per poi incamminarsi verso una visione “astratta”. La svolta avviene in seguito all’adesione al Fronte Nuovo delle Arti. Nel 1952, infatti, forma il Gruppo degli Otto, gruppo antineorealista italiano, e in Senza titolo (1953), ad esempio, il colore viene steso con pennellate nervose e violente.
Similmente, Commedia è la rappresentazione di un triangolo adulterino, dove i tre personaggi, un uomo e due donne (la moglie e l’amante), sono impossibilitati a muoversi, sepolti in tre giare grigie da cui sporgono soltanto le loro teste. Sono probabilmente morti, perduti in chissà quale inferno. Già nello stile i due autori sono complementari: in Diario di Burano (1953), ad esempio, si può facilmente notare come l’aggrovigliarsi del materiale figurativo corrisponde al sovrapporsi delle battute dei personaggi di Beckett durante tutto il testo, in cui ogni personaggio parla quasi in contemporanea all’altro, interrompendo di volta in volta la battuta del

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BECKETT L’OTTIMISTA (part. 1)

Samuel Beckett è un autore che non ha bisogno di presentazioni. Complesso e poliedrico, la sua produzione spazia dal romanzo al teatro, dalla radio al cinema e alla televisione. La sua produzione teatrale ha segnato un punto di svolta dalla tradizione precedente e dall’idea stessa del fare teatro. Il teatro prima di lui era, infatti, per lo più, la rappresentazione di una storia lineare e non di una sola situazione che, ripetuta, porta all’estremo le sue conseguenze.
Allo stesso modo anche le arti visive, nella seconda metà del Novecento, non raccontano più storie, ma esprimono concetti. Lo spazio del quadro o della scultura informale può essere considerato la riproduzione della tecnologia elettronica “del cerchio”, ovvero la tecnologia
successiva alle scoperte e alle invenzioni come l’anello di Pacinotti (1866). Questa lettura è stata ipotizzata da Marshall McLuhan (1911-1980), sociologo e filosofo, che notò come le invenzioni artistiche e quelle tecnologiche seguano un’evoluzione parallela: la stampa di Gutenberg, ad
esempio, è coincidente con la scoperta della prospettiva da parte di Paolo Uccello. Così nell’arte contemporanea, successivamente al Ritorno all’Ordine degli anni Venti, c’è un’esplosione di nuove tendenze: la riscoperta del filone cosiddetto biomorfo (che riprende figure ameboidi e batteriche) di
Kandisky e Klee fa nascere il nuovo clima dell’Informale prima in Francia, con Jean Fautrier e le sue Teste d’ostaggio e poi con Jean Dubuffet e l’uso del catrame sulla tela.

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